La guerra in Ucraina, la poesia, l’empatia: una chiacchierata con Luca Alvino

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2021 ha pubblicato per Interno Poesia la raccolta poetica Cento sonetti indie. Fa parte della redazione della rivista «Nuovi Argomenti», per la quale si è occupato della scrittura di saggi critici e di traduzione poetica.

In classe abbiamo letto un suo sonetto dedicato alla guerra in Ucraina, che ci ha colpito al punto da decidere di rivolgergli alcune domande. L’autore è stato così cortese da volerci rispondere: ne è nato un dialogo molto stimolante, che riportiamo di seguito.

Prima di tutto, però, la poesia:

Nel nostro cielo c’è la stessa luna 

Penso con raccapriccio alla rovina, 

alle persone in fuga per la via, 

immagino l’orrore e l’agonia, 

per i tuoi figli, nobile Ucraina. 

L’anima mia stanotte ti è vicina, 

e si dispera per questa follia, 

mi sembra come fosse casa mia 

la guerra sanguinosa ed assassina. 

Vedo le luci dei bombardamenti 

e penso ai tuoi bambini e alla paura, 

mi chiedo qual destino ci accomuna. 

Io sento nel mio cuore i tuoi tormenti, 

non è soltanto tua la sorte oscura. 

Nel nostro cielo c’è la stessa luna. 

1) Quando è nata la sua passione per la poesia?  

È nata abbastanza presto. Ho scritto la mia prima poesia all’età di undici anni, ma è stato dopo i quindici che ho iniziato a scriverne davvero molte. Erano essenzialmente poesie d’amore, nelle quali davo sfogo ai miei sentimenti per delle passioni quasi sempre non corrisposte. 

Non ho scritto poesia in tutti gli anni della mia vita. Ci sono stati periodi lunghi, anche molto lunghi, in cui non ho scritto neanche un verso. Poi, pochi anni fa, mi è scattato qualcosa dentro, e ho iniziato a scrivere poesie quasi ogni giorno. 

2) C’è qualcosa o qualcuno che l’ha ispirato?  

Ai tempi della scuola leggere poesia mi piaceva molto. Leggevo i classici della poesia italiana, quelli che mi spiegavano in classe: Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, d’Annunzio, Gozzano. E soprattutto la poesia classica, greca e romana. Mi piacevano molto i lirici greci, che leggevo nella traduzione di Salvatore Quasimodo (e che provavo a gustare anche in lingua originale): Saffo, Alceo, Anacreonte, Mimnermo. Ma leggevo e rileggevo anche Omero e la Teogonia di Esiodo. E poi la poesia latina: Virgilio, Orazio, ma soprattutto la poesia d’amore: Ovidio e Catullo. 

3) A quali poeti del passato si ispira, a quali vorrebbe assomigliare?  

Mi ispiro a molti (per esempio quelli che ho nominato nella risposta precedente), ma non vorrei assomigliare a nessuno di loro. La tradizione è importantissima, perché è una continua fonte di ispirazione, e perché è bello intrattenere un dialogo (anche se solo a livello mentale) con i grandi del passato. Ma un poeta deve avere una voce propria, che sia unica, altrimenti non aggiunge nulla, non è interessante per i lettori, è una (brutta) copia di qualcos’altro, non serve a niente. 

4) Nel XXI secolo c’è ancora bisogno di poeti e di poesie? A che servono? Non sarebbe meglio dedicarsi a qualcosa di più “innovativo”? 

Penso che più il mondo e la società divengono tecnologici, più la poesia sia necessaria, perché altrimenti ci si dimentica l’umanità. L’innovazione, il progresso, la tecnologia, la scienza, sono importantissime, ma se non sono accompagnate da una riflessione profonda, accattivante, attraente sull’umanità, sull’unicità dell’essere umano, rischiano livellare le persone rendendole tutte uguali. Per questo motivo, a mio avviso, nel XXI secolo la poesia è ancora più importante che nel XIII. La poesia non è qualcosa di antico, che appartiene al passato. La poesia ha il compito di guardare avanti, di svelare l’umanità che si rinnova giorno per giorno agli esseri umani. La poesia appartiene al futuro. 

5) Essere poeta può diventare un lavoro, o si deve svolgere qualche altra attività per guadagnarsi da vivere? 

Sono pochissimi i poeti che riescono a vivere dei soli guadagni della poesia. Si contano sulle dita di una mano. Parlo dell’Italia, ma non credo che all’estero sia diverso. Scrivere poesia è una passione, non è un mestiere. Per la maggior parte dei libri di poesia che si pubblicano in Italia, non solo gli editori non pagano nulla agli autori, ma molto spesso chiedono loro dei soldi come contributo alle spese di edizione. È una pratica non solo eticamente scorretta, ma anche profondamente disonesta. Eppure ci sono molti autori che cedono a questo ricatto, e pagano i soldi richiesti dall’editore truffaldino, pur di avere la soddisfazione di tenere tra le mani il proprio libro stampato. 

6) Quanto è importante nella sua vita la poesia: è solo un hobby, è una passione, una ragione di vita o cos’altro? 

La poesia per me è molto importante, sia quando la leggo che quando la scrivo. Definirla hobby è riduttivo; definirla ragione di vita forse è troppo; direi che passione può essere la parola giusta. 

Quando la leggo, mi aiuta a vedere il mondo con occhi diversi, a comprendere la bellezza delle cose, di quelle che sono già oggettivamente meravigliose, ma anche di quelle normali, di quelle più semplici, che spesso nemmeno notiamo; addirittura di quelle tristi, di quelle disperate. Quando si dà a qualcosa una forma piacevole (tramite una scelta attenta della parole, una loro speciale disposizione nel verso, tramite il ritmo che si impone alla poesia, per mezzo della musicalità), ogni cosa viene accettata meglio, è possibile riflettervi su con maggiore attenzione.  

La poesia è il luogo in cui le parole evolvono, si definiscono, acquistano nuovi significati. Ogni buon prosatore dovrebbe leggere poesia, perché essa è la palestra del linguaggio, di ogni linguaggio. 

Quando invece la scrivo, la poesia è il modo più bello e appagante che ho per intrappolare in una forma chiusa il flusso continuo delle mie emozioni. Mi aiuta a elaborarle meglio, a rendere più accettabili quelle negative, può farle diventare addirittura belle. La poesia è la mia arma segreta contro me stesso, il modo che ho per capirmi meglio, e anche se naturalmente non risolve i miei problemi, può essere un punto di partenza per affrontarli in modo migliore. 

7) Prova e pensa veramente le cose che scrive nelle poesie?  

Assolutamente sì. La sincerità è fondamentale nella poesia, come nella letteratura in genere. Senza la sincerità la poesia non funziona. È abbastanza facile capire se un poeta non è sincero. Normalmente, scrive delle brutte poesie. Si possono raccontare anche cose inventate, del tutto immaginarie, ma occorre farlo con sincerità. Nel mio caso specifico, la mia poesia è spesso di natura diaristica. Quasi sempre racconta esperienze concrete della mia esistenza, che ovviamente vengono plasmate, trasformate, trasfigurate, perché è questo che fa l’arte; ma non di meno rimangono assolutamente vere, del tutto sincere. 

8) Come si fa a esprimere pienamente le proprie emozioni davanti a un foglio bianco?  

Per quel che mi riguarda, di solito mi viene in mente un verso, senza che io ci pensi, così all’improvviso. Sembra qualcosa di magico, ma io credo che quel verso maturi lentamente nel rimuginio dei miei pensieri. Non è necessariamente il primo vero della poesia, può essere anche l’ultimo, o uno che starà nel mezzo. Io poi scrivo in rima, quindi a partire da quel verso ne nascono altri che rimano con quello, e pian piano la poesia si sviluppa. L’importante è avere bene in mente cosa si voglia dire. Quel primo verso è importante, ma se non è portatore di un significato più ampio, da indagare e sviluppare, la poesia muore lì. 

9) Noi abbiamo letto la sua poesia dedicata all’Ucraina. Perché ha deciso di scrivere una poesia su questo argomento? Può servire a qualcosa? Può fermare Putin o i soldati russi?  

Naturalmente la mia poesia non fermerà Putin e nemmeno i soldati russi. Non lo farebbe nemmeno se qualcuno gliela portasse e gliela facesse leggere. Naturalmente non l’ho scritta per questo motivo. Però ritengo che, di fronte a una situazione di grave ingiustizia, chiunque abbia il dovere di levare una protesta, di esprimere solidarietà, di rappresentare l’orrore per quello che è. Ciascuno può farlo con i propri strumenti. Gli artisti proveranno a creare delle opere d’arte. Chi non si serve dell’arte può parlarne con gli amici, in famiglia, con i propri figli. Se tutti esprimono la propria indignazione si crea una coscienza condivisa sempre più ampia. E questa sì, se avesse una dimensione globale, forse potrebbe anche arrivare a fermare i carri armati russi, chissà. 

10) In Russia, in questi giorni, le persone che protestano vengono arrestate, c’è stato anche il caso di una giornalista che ha scritto un cartello contro la guerra e lo ha mostrato in diretta in televisione. Loro, scrivendo o parlando a favore della pace, rischiano molto, noi non rischiamo nulla, allora che senso ha quello che possiamo scrivere o dire?  

Per una popolazione aggredita, sofferente, è molto importante sentire la solidarietà degli altri popoli. Naturalmente ci sono vari modi per esprimerla. I politici possono offrirsi di fare da intermediari per la pace. Gli uomini comuni possono fare donazioni, ospitare dei profughi, andare a fare volontariato negli scenari di guerra. Naturalmente queste sono cose importantissime, le più importanti. Ma è importante anche esprimere con tutti i modi possibili la propria solidarietà con i popoli sofferenti. Forse la maggior parte di questi messaggi di solidarietà non arriverà fino a loro, ma servirà alle altre popolazioni per stabilire una vicinanza emotiva importantissima, che potrebbe avere il potere di suscitare risposte più forti. 

11) Ha pensato di tradurre la sua poesia in ucraino per farla arrivare in qualche modo a quella gente?  

No, non ci ho pensato. Però non è una cattiva idea. Chiederò a qualcuno, grazie. 

12) Nella sua poesia, lei definisce l’Ucraina “nobile”, perché?  

In latino «nobile» significa «degno di essere conosciuto». Io ritengo che chiunque stia sperimentando una grande sofferenza sia degno di essere conosciuto. Io so molto poco dell’Ucraina, come la maggior parte di noi italiani. Ecco, ritengo che in questo momento storico sia giusto informarsi, conoscere la storia travagliata di questa nazione. Ma sia anche il momento di conoscere i figli di questa nazione, di ospitare i loro profughi nelle nostre case, di ascoltare le loro storie. 

13) Lei scrive, a proposito delle sofferenze del popolo ucraino “sento nel mio cuore i tuoi tormenti”: ma è davvero possibile immedesimarsi nel dolore di un altro? A che serve, nella vita, l’empatia? È importante per essere veri uomini? Ed è importante per essere un poeta?  

L’empatia per me è la qualità più importante per un essere umano. Ciascuno di noi desidera di essere compreso, sia nei momenti belli che in quelli brutti. È per questo che cerchiamo degli amici. Ed è per questo che, quando gli amici non ci bastano, ci affidiamo a uno psicologo. In questi giorni ho riflettuto molto su come debbano sentirsi gli ucraini, e ho sentito la loro sofferenza in modo così profondo che è penetrata nel mio cuore. Certo, non potrò mai immedesimarmi completamente nel loro dolore, ma avvicinarci a esso quanto più si può è secondo me ciò che fa di noi degli esseri umani. 

14) Perché ha deciso proprio di scrivere un sonetto?  

Non ho scritto sempre sonetti nella mia vita. Lo sto facendo da poco più di due anni. Un anno fa ho pubblicato un libro in cui ce ne sono cento, e nel frattempo ne ho scritti numerosi altri. Il mio desiderio era quello di dimostrare che si può usare una forma poetica tra le più classiche della tradizione italiana senza sembrare antiquati, e facendolo usando parole contemporanee, attingendo a tutti i linguaggi: quello medico, quello farmacologico, quello informatico, quello dei social, quello colloquiale.  

Il sonetto è una forma che mi ha sempre affascinato. È formato da due quartine, ovvero due strofe di quattro versi ciascuna, e due terzine, due strofe di tre versi. Nelle quartine, di andamento più lento e solenne, si esprime la tesi della poesia, nelle terzine, più rapide e puntuali, si pone lo scioglimento. Il tutto accompagnato da uno schema di rime che lo rende molto godibile e musicale.  

Perché ho scelto il sonetto? Perché è una forma che mi piace molto. Ma ovviamente è una posizione del tutto personale. 

15) Come si fa a rispettare uno schema di rime e le regole della metrica (per esempio scrivere versi che abbiano tutti lo stesso numero di sillabe?). Non sarebbe più facile scrivere in versi liberi? 

Certo che sarebbe più facile. Ma io trovo che, per la mia poesia, sia più adeguata la forma chiusa, quindi il numero esatto delle sillabe, fa formulazione fissa delle strofe (anche se ci possono essere sonetti con più di quattordici versi, ma questa è un’altra storia), lo schema delle rime. Non è semplice, ma nemmeno così difficile. John Keats, un importantissimo poeta del Romanticismo inglese, faceva delle gare con i suoi amici poeti per comporre sonetti su un tema stabilito in quindici minuti. Ora, quindici minuti vi assicuro che sono pochissimi, ma i suoi sonetti sono splendidi. 

Con ciò non voglio sostenere che la forma chiusa sia migliore del verso libero. Questa è la mia scelta personale (e controcorrente), ma rimane la mia. Poi ci sono tantissime poesie in versi liberi che leggo e apprezzo quotidianamente, per carità. 

Ettore e Andromaca ieri e oggi. La guerra in Ucraina e noi.

Ettore e Andromaca, Giorgio De Chirico, 1917

Un uomo saluta moglie e figlio forse per l’ultima volta, da qualche parte in Ucraina, oggi.

Immagini molto diverse, ma profondamente simili. Ce ne siamo resi conto studiando l’epica, leggendo l’Iliade. Perché a scuola si fa anche questo: si studia l’epica, si legge l’Iliade.

Sembrano storie polverose e antiquate, inutilmente cruente, finché il mito non squarcia le pagine dei libri e ce lo ritroviamo nel salotto di casa, impresso nei nostri occhi attraverso le immagini trasmesse da internet, dalle televisioni. Allora la realtà della guerra ci sconvolge, non abbiamo gli strumenti per decifrarla, la forza di guardarla in faccia.

Ma la poesia e l’arte, che hanno dato voce ai sentimenti degli uomini del passato, esistono per dare voce anche ai nostri. Ed è attraverso il poema di Omero, come attraverso alcuni quadri che s’ispirano all’episodio di Ettore e Andromaca, che ci è possibile fraternizzare con il dolore di tante famiglie spezzate, con la paura e il coraggio degli oppressi. Ma anche dare un nome alla nostra paura, alla nostra speranza, diventando più forti e consapevoli. Ecco come ci abbiamo provato:

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“A me personalmente l’episodio suscita molta tristezza perché è l’addio di due persone che si amano ed Ettore deve andare a combattere per proteggere la sua famiglia e la sua città. 

Nel vedere la foto del soldato ucraino che saluta i familiari oltre a molta tristezza provo anche molta rabbia: abbiamo detto molte volte che la storia ci dovrebbe insegnare qualcosa ma questa è l’ennesima e spero ultima volta dove si dimostra che in fondo non a tutti la storia insegna. 

Io molte volte cerco di immedesimarmi in loro e veramente mi fa male anche il solo pensiero che tanti uomini ucraini solo per difendere la loro terra e la loro famiglia debbano morire, ma anche che muoiano donne e bambini e civili innocenti. 

Se io fossi una protagonista di questa scena non potrei provare altro che orrore, tristezza e speranza. 

Mi colpisce il fatto che nel quadro di De Chirico gli uomini vengano rappresentati come manichini, secondo me per vari motivi: il primo è quello che col passare del tempo gli uomini hanno perso la propria personalità e il secondo è che a causa della guerra gli è stata strappata la libertà, gli sono state portate via la felicità e gli affetti, perciò sono come svuotati. 

Le mie paure sono quelle che la guerra si possa spostare verso l’Italia e soprattutto che si torni al modo antico di conquista, cioè quando si toglieva la libertà. 

Mentre le mie speranze sono che la storia insegni veramente qualcosa e spero che lo faccia anche per le persone con l’animo cattivo, cambiandole davvero”. 

Giulia Conti 1F 

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Ettore e Andromaca è un mito che racconta dell’ultimo saluto dell’eroe alla famiglia. Questa scena dell’addio  mi suscita tristezza perché Ettore saluta la famiglia forse per l’ultima volta dato che deve andare a combattere per la patria, lasciando moglie e figlioletto da soli. 

In Ucraina sta avvenendo una guerra, allora il governo sta chiamando tutti gli uomini per difendere la propria nazione. Le donne come Andromaca si prendono cura dei propri figli. 

Il soldato ucraino, come Ettore, deve salutare la propria famiglia e nel loro saluto e nel loro abbraccio vedo tanto amore e bene  ma da una parte anche dolore e tristezza.  

Se mi immedesimo in loro provo tanto dolore perché perdere il babbo è una cosa indescrivibile che non si può pensare che accada. 

Ci sono molti quadri che rappresentano la scena di Ettore e Andromaca ma uno in particolare mi ha colpito ed è quello dipinto da De Chirico. 

Il quadro rappresenta i due come manichini poiché la guerra ha portato via tutto; come oggi in Ucraina non sta portando cose positive ma soltanto negative. 

  La guerra ha portato via a tante persone la casa, la scuola , il lavoro, gli amici e i propri cari e ho tanta paura che possa succedere anche a me. 

La mia speranza è che la guerra finisca al più presto possibile e che torni la pace. 

Mattia Pratesi 1F

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“L’episodio di Ettore e Andromaca mi suscita dispiacere nei confronti della loro famiglia perché mi immedesimo in loro; mi colpisce di più Ettore perché lui sa già che morirà ma non si arrende, nonostante la tragica situazione che vive con i suoi familiari e la guerra. L’ immagine mi rattrista un sacco e penso che l’uomo non abbia imparato nulla dalla storia visto che ripete sempre gli stessi errori; inoltre  penso che dire addio alla famiglia per una stupida guerra sia alquanto drammatico. Se fossi un membro di quella famiglia probabilmente direi addio nella maniera migliore possibile ma ci metterei moltissimi anni a riprendermi dal “lutto”. Secondo me nel quadro di De Chirico i personaggi sono  rappresentati come dei manichini anche perché si fanno modellare dalla guerra: la guerra li cambia, gli toglie le forze, i sogni. Di fronte a ciò avrei solo una paura che è quella di perdere qualcuno della mia famiglia o qualcuno a cui tengo. La mia speranza è credere nella giustizia perché di solito chi fa il bene non deve pagare le conseguenze di nulla, a differenza di chi fa il male e viene punito. Inoltre dopo aver sofferto si può anche migliorare il proprio carattere, come per esempio dopo la pioggia c’è sempre l’arcobaleno: per questo spero che chi ora sta soffrendo in qualche modo ne esca migliore”.  

Giada Ferrero 1F 

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“Negli ultimi anni stiamo lottando  senza mai fermarsi: prima una guerra contro un avversario invisibile, il covid, non ancora terminata; poi la guerra fra Russia e Ucraina, scene che non ci sembrano vere negli anni 2000, ci immaginiamo quasi di vedere un film ma in realtà è tutto vero. Sono avvenimenti che troviamo sui libri di storia e epica come l’ episodio di Ettore e Andromaca, ma ora molto vicini a quello che ci fanno vedere in tv. Ettore lascia sua moglie ed il figlio Astianatte per combattere contro gli Achei e difendere il suo popolo. È una scena commovente che ci mostra la forza di volontà dell’ uomo e la moglie che cerca di convincere il marito a restare con loro per evitare la morte. Ettore prova dolore per la famiglia ma non può fare a meno di difendere la sua patria e con coraggio andrà in guerrra. Oggi stesso ci troviamo di fronte ad immagini molto simili, famiglie costrette a dividersi, uomini e ragazzi molto giovani, incapaci di usare armi, che devono farsi forza e coraggio sia per lasciare i cari che per lottare contro i nemici. Cerco di immedesimarmi nelle loro condizioni, sarebbe una scelta difficile e triste… vedrei mio fratello di appena 18 anni costretto ad affrontare la guerra senza sapere come fare, ma certo di fronte avrebbe sempre la paura della morte. Cercherei in ogni modo di convincere i miei familiari a seguire me e mia mamma verso la libertà ma credo che sarebbe tutto inutile. Davanti ad una guerra ognuno di noi si sente abbandonato ed indifeso, non ci sono più la vita di tutti i giorni , le nostre passioni, i sogni… diventiamo dei manichini con l’unico obiettivo che tutto finisca presto. Qualche giorno fa  ero in macchina con mia mamma ed una psicologa alla radio spiegava che la guerra di oggi si può paragonare alla favola di Cappuccetto Rosso che non doveva fidarsi del lupo, del cattivo… ma alla fine arriva il cacciatore… insomma, voleva far capire che bisogna sempre lottare per la pace, la vita ci riserva prove difficili e crudeli ma dobbiamo credere al bene e raggiungerlo, deve trionfare sempre”. 

Matteo Marini 1F 

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        “L’addio tra Ettore e Andromaca mi suscita dispiacere ma allo stesso tempo stima per Ettore perché comunque lui è andato in guerra per difendere la sua famiglia e la sua patria; questo addio si può ricollegare all’evento che oggi si sta svolgendo in Ucraina, dove molti uomini devono salutare la propria famiglia per andare a combattere. Ciò  mi suscita molto dispiacere e il pensiero che questa guerra sia reale è sconfortante. 

Sinceramente io non riesco ad immedesimarmi del tutto in loro, ma quel poco basta per capire quanta paura provano a stare lì, tra i bombardamenti dell’esercito russo; comunque se io fossi uno dei protagonisti di questa scena farei come hanno fatto Ettore ed alcuni uomini ucraini, anche se con molta paura. 

Secondo me nel quadro di De Chirico sono rappresentati Ettore e Andromaca come dei manichini perché ormai con la guerra gli avevano tolto tutti i sogni, tutte le passioni che non potevano più coltivare, e le emozioni, di cui ormai ne era rimasta solo una, la paura. 

Di fronte a questa situazione provo timore che l’esercito russo non si fermi qui e voglia ancora conquistare  territori altrui, ma spero che la guerra si concluda in modo pacifico”. 

Thomas Martinelli 1F 

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“La scena dell’addio tra Ettore e Andromaca mi fa molta tenerezza perché riescono a ridere anche in una situazione così , però mi fa provare molta tristezza perché non si rivedranno mai più. Parlando della realtà, questa situazione è molto grave. La foto di un uomo ucraino che saluta la moglie e il figlio forse per l’ultima volta visto che deve andare in guerra mi suscita moltissimo sconforto perché questa è la realtà e non un mito. Se fossi la moglie di quel soldato ucraino non saprei più che fare pensando che dovrei lasciare mio marito in guerra e andarmene via senza di lui , proverei molta rabbia anche nei confronti della guerra e piangerei perché perderei mio marito. Nel quadro di De Chirico secondo me i personaggi di Ettore e Andromaca sono rappresentati come manichini perché potrebbero rappresentare i resti dei due personaggi dopo la guerra. Io ho molta paura di questa situazione perché se scoppiasse la terza guerra mondiale e ci dovessimo nascondere nei bunker mi dividerei da mia mamma o da mio babbo visto che sono separati e ho moltissima paura per questo motivo, non riesco proprio a non pensarci . Spero che Putin smetta questa guerra perché tutti i ragazzi devono godersi la loro adolescenza  e avere un futuro: l’unica cosa che dobbiamo fare è sperare che la guerra finisca e che scoppi la pace”. 

Chiara Meshau 1F 

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“Questa scena tra Ettore e Andromaca mi ha suscitato molta tristezza perché l’eroe deve andare a combattere e lasciare sua moglie e suo figlio da soli . Il personaggio che mi ha colpito di più è Ettore, perché anche se sa di morire lui combatte lo stesso per il suo popolo . Penso che la guerra che c’è in questo momento tra Russia e Ucraina stia rovinando tante famiglie in cui fratelli e padri devono salutare forse per l’ultima volta la mamma o la sorella . La foto in cui un soldato ucraino deve salutare sua moglie e il suo figlioletto mi suscita tanto dolore perché penso cosa si deve provare a stare nei panni di loro che soffrono ogni giorno, con la paura che il padre muoia. Secondo me il pittore De Chirico nel suo quadro ha disegnato i personaggi come manichini per fare capire che l’abbraccio sarà eterno nonostante la separazione . Di fronte a questa situazione ho paura che muoiano tante persone innocenti e si rovini una nazione, ma le mie speranze sono che gli oppressi riusciranno a vincere perché anche se con difficoltà e paura di essere sconfitti vanno avanti” . 

Sheryl Musotto 1F 

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“La storia letta in classe, la scena dell’addio tra Ettore e Andromaca, mi suscita tristezza perché pensare ad un uomo che va a combattere e lascia la sua famiglia è devastante, soprattutto per le persone che lascia. 

Nella storia il personaggio che mi ha colpito di più è Ettore, perché è stato molto coraggioso a prendere una decisione tanto difficile, nonostante questo è andato comunque a combattere per proteggere il suo popolo e soprattutto la sua famiglia. 

Anche la foto di cronaca, dove c’è il soldato ucraino che saluta moglie e figlio forse per l’ultima volta, mi suscita una grande tristezza. 

Non riesco ad immedesimarmi in loro, ma se fossi uno dei soldati, penso che continuerei a combattere per il mio paese. 

Secondo me nel quadro di Giorgio De Chirico Ettore e Andromaca sono rappresentati come dei manichini perché la guerra è come se avesse spazzato via i loro corpi e fossero rimasti pietrificati, trasformandosi in esseri senza vita. 

Io ho paura di questa situazione perché potrebbe diventare una guerra atomica e le mie speranze sono che finisca al più presto, perciò cerco di pensare sempre positivo”. 

Dario Palloni 1F 

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“L’addio tra Ettore e Andromaca mi suscita molta tristezza e compassione, perché Ettore sa già che sarebbe stato ucciso e che quello sarebbe stato l’ultimo saluto alla sua famiglia. Il personaggio che più mi colpisce è Ettore, perché ha il coraggio di andare a combattere pur sapendo di morire. 

Le stesse emozioni  le ho provate anche guardando la foto del soldato ucraino che saluta forse per l’ultima volta la propria famiglia. Questo pensiero è molto frequente ogni volta che vedo una persona per strada: noi possiamo camminare senza problemi e penso invece che in Ucraina una persona che cammina per strada ha paura perché sa che da un momento all’altro potrebbe avvenire un bombardamento. A volte provo a immedesimarmi in quei bambini che da un giorno all’altro si sono trovati in una guerra vera, dove hanno perso la loro casa e forse anche i loro familiari e allora penso di essere un bambino fortunato. Se fossi un protagonista di questa scena, penserei agli ultimi due anni vissuti, dove tutto il mondo era in crisi e dove sono morte migliaia di persone, ed avrei evitato che tutto questo potesse accadere, ma comunque la guerra non si dovrebbe fare a prescindere dai problemi tra nazioni o paesi, bisognerebbe risolvere i problemi discutendone. 

I personaggi del quadro di De Chirico secondo me sono rappresentati come dei manichini, perché il pittore vuole farci capire che le persone in alcuni paesi sono sottomesse e non hanno libertà, come ad esempio durante le guerre, dove le persone si ritrovano in queste situazioni senza averne colpa e si ritrovano a perdere tutto quello che hanno. 

La mia paura è che per salvare l’Ucraina qualche nazione si intrometta e che la guerra si possa ampliare. La mia speranza è che una mattina mi svegli e accendendo la televisione senta dire che la GUERRA è finita”. 

Mattia Pecorelli 1F 

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“L’episodio raccontato in classe mi suscita molta tristezza nei confronti sia di Ettore che di Andromaca: per lei perché non ha più parenti e quindi ha paura di rimanere sola, per Ettore perché deve lasciare la moglie e il figlio per proteggere la  patria e non, come Achille, perché vuole combattere solo per avere  gloria. Il personaggio che mi colpisce di più è Ettore, per il suo coraggio, poiché non è da tutti lasciare moglie e figlio per proteggere la propria città.       Purtroppo ciò che stiamo vivendo in questo momento non è un mito ma la realtà: la guerra in Ucraina sta dividendo molte famiglie, perché il padre molte volte deve andare a combattere e forse potrebbe non rivedere il figlioletto e la moglie, come nella foto sopra. Questa cosa mi rende triste poiché nel 2022 non si possono ancora vedere guerre. Io se fossi un adulto ucraino dovrei per forza arruolarmi come militare e proteggere la mia patria, come ha fatto Ettore ma, come lui, dovrei lasciare la mia famiglia e tutto ciò che amo. Ritornando a Ettore e Andromaca, alcuni pittori hanno fatto molti quadri a riguardo, uno in particolare è De Chirico, che ha disegnato Ettore e sua moglie come dei manichini, secondo me perché la guerra ha rimosso dalla vita delle persone tutto ciò che gli piaceva per esempio sogni, passioni e hobby. Io temo che la guerra in Ucraina non sia una cosa lontana, ma più vicino di quanto pensiamo, ho molta paura che scoppi la terza guerra mondiale, per questo spero che finisca tutto bene con l’Ucraina che respinge la Russia, e che quest’ultima poi ritiri tutte le truppe dal suolo ucraino”. 

Alessandro Di Paola, 1F 

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Io non capisco Ettore che preferisce andarsene invece di rimanere con il figlio e la moglie. È strano che un babbo parta per andare in guerra; a me non è mai successo e spero che non mi succeda mai.
Piangerei tantissimo.
Quella di Ettore e Andromaca è solo una vecchia storia, ma oggi in Ucraina c’è davvero la guerra e mi sembra impossibile che dei babbi salutino i loro figli e le loro mogli. Mi sembra impossibile perché non sta succedendo qui. Se la guerra fosse ad Agliana, allora penso che sarei disperata e tanto tanto impaurita.

Sofia Sandre 1F

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A me questo episodio fa molta tristezza perché Andromaca sta per rimanere da sola con il bambino.
Mi fa arrabbiare il fatto che Ettore vada via.
Se il mio babbo partisse per la guerra io sarei arrabbiatissima.
Mi dispiace tanto per le persone che sono davvero in guerra e per tutte le mamme e i bambini che devono salutare i loro babbi o i loro fratelli maggiori.

Amber Babar 1F

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La scena dell’addio tra Ettore e Andromaca suscita in me una grande tristezza, perché il marito e padre del piccolo saluta la sua famiglia che forse non rivedrà mai più.  Sono colpito dal comportamento di Ettore, che nonostante le ripetute raccomandazioni di Andromaca, non cambia idea e procede per la sua strada.  

La foto del soldato ucraino suscita in me lo stesso sentimento, sta accadendo in questi giorni e non in un mito raccontato. 

Purtroppo da qualche settimana, queste sono immagini giornaliere, molto drammatiche e reali. Famiglie distrutte e famiglie divise in cerca di luoghi più sicuri, mentre gli uomini restano in Ucraina a difendere la loro patria, rischiando la vita. 

Se io fossi nella stessa situazione non credo che riuscirei mai ad abbandonare la mia famiglia. 

Proteggerei i miei cari e rimarrei con loro piuttosto che prendere le armi. 

La guerra è devastante e distruttiva. Toglie e spazza via tutto: case, famiglie, amici, abitudini e sogni. Secondo me De Chirico quando ha realizzato questo dipinto voleva trasmettere anche a noi che la guerra è disumana, disegnando non uomini ma manichini. 

Ho il timore che questa invasione possa trasformarsi in una terribile guerra mondiale. 

Spero vivamente che questo non accada e che questo conflitto possa finire al più presto, senza più morti inutili. 

Lorenzo Pierattini 1F

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La scena di Ettore e Andromaca mi suscita tristezza se penso alla donna, mentre penso al coraggio da parte del padre nell’affrontare gli Achei con tanto ardore e forza. 

Il personaggio che mi colpisce di più è Ettore perché anche se morirà ha dimostrato al suo popolo di essere una persona forte e coraggiosa che non si tira mai indietro. 

La foto del soldato ucraino mi suscita compassione e dispiacere per la moglie e il figlio perché non sanno se il padre potrà ritornare salvo e se lo rivedranno mai più. 

Se fossi il protagonista di questa scena andrei in guerra a combattere per salvare il mio popolo e per dimostrare che non mi sono tirata indietro:  anche se morissi almeno ci avrei provato. 

Secondo me, nel quadro di De Chirico i personaggi sono rappresentati come dei manichini perché ora gli esseri umani hanno sviluppato la tecnologia e molte altre cose, ma l’istinto della guerra e di combattere ancora lo hanno e quindi il pittore li ha rappresentati come oggetti e persone che hanno tante capacità ma che stanno rovinando il pianeta. 

La mia speranza di fronte a questa situazione è che l’Ucraina vinca, ma anche se perderà almeno ci ha avrà messo forza e molto coraggio. 

Elisa Petruzzi 1F 

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A me ha colpito più di tutti Ettore, perché invece di restare sulla torre insieme a sua moglie e suo figlio, vuole andare a combattere per salvare il suo popolo e la sua famiglia. Per questo lo stimo tanto per il suo coraggio.  

La foto mi suscita tristezza perché può anche morire e quindi non rivedere più la sua famiglia. Mi fa paura pensare che ci sia una guerra creata da una persona incosciente vicino a casa nostra, dove possono morire molte persone compresi molti bambini che con la guerra non c’entrano niente. Penso che loro abbiano molta paura vedendo le loro città distrutte e per il fatto di dover scappare in un altro paese o lasciare la casa dove sono nati.  

Il quadro di De Chirico rappresenta due manichini, illustra due persone immobili e senza niente, come se la guerra gli avesse tolto tutto e loro fossero impotenti. 

Le mie paure sono che Putin non si accontenti solo dell’Ucraina e che voglia occupare altri Stati e per questo possa causare la terza guerre mondiale. La mia speranza è che trovino una soluzione al più presto e smettano di fare la guerra. 

Matteo Macelloni 1F 



Ossimori e metafore

Come si dice l’impossibile? Come si dice l’amore? Come si dice quella cosa impossibile che è l’amore? Abbiamo imparato da Dante, dal XXXIII del Paradiso, che la poesia riesce a congiungere quello che sembra separato e a nominare l’innominabile.

Allora anche noi, nel nostro piccolo, proviamo a dar voce ai sentimenti imparando a usare parole e immagini.

Caro fratello,

sei il mio buio luminoso,

la strada da seguire.

C’è una montagna da scalare

per comprenderti,

tuttavia conosco

la retta via.

Tu freddo calore

che pure infonde

gioia, tu al quale voglio

un mondo di bene.

(Francesco Bonacchi 2F)

* * *

Questa poesia la dedico a te

che sei un pelouche dagli occhi miti:

la tua dolcezza amata

fa di te un giocattolo diffidente

ma quando mi guardi andar via

i tuoi occhi si riempiono d’amore

e a me si spezza il cuore

quando mi osservi mentre chiudo la porta.

Quanto torno però il tuo sorriso

sotteso ai tuoi lunghissimi baffi

mi regala un’immensa gioia.

Questa poesia la dedico a te

che sei una pallina morbida

e ogni volta che ti abbraccio

mi trasmetti sicurezza.

Grazie perché illumini

con i tuoi miti occhi

la luce buia della notte.

Martina Bertini 2F

* * *

La mia vita è un terremoto

per questo il mio carattere è molto noto

sono un’allegra pessimista

le mie emozioni gareggiano in pista

sussurro forte il mio nome

sono un uragano in azione

il mio realismo magico

trasforma il mio carattere tragico

(Viola Rinaldi 2F)

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Sei un leone, non hai paura

di nessuno, la tua gamba malandata

alla fine è un dolce dolore, che un po’

ci fa ammattire, ma è proprio questo

che ti rende un nonno speciale, la tua infinita

bontà mi fa sentire come una farfalla.

Quando sto con te il tempo

è un attimo, un attimo

infinito.

Vittoria Biagini 2F

* * *

Tu che sei presente

sei il mio buio lucente

sei un’acida dolcezza

una forte debolezza

sei e per sempre rimarrai

la mia principessa.

Giulia Bardazzi 2F

* * *

Quando ti guardo negli occhi

vedo la luce

oscura che illumina

il tuo viso, il tuo sussurro

stridente risuona

nelle tenebre, ma più ti guardo

più mi sembri il sole

sorgente del mio cuore,

sei il più bel fiore

su questo pianeta.

Amalia Sabatini 2F

La scrittura autobiografica: perché?

Capire che la nostra vita è comune eppure eccezionale non è così scontato. Non esiste, non è mai esistita né mai esisterà una persona con impronte digitali identiche a un’altra, ognuno di noi è unico e irripetibile, eppure le nostre esistenze quotidiane in apparenza si assomigliano. Ma è questa somiglianza a spingerci a fraternizzare con gli altri, a mettersi nei loro panni, a sentire che i loro guai e le loro gioie in fondo sono anche le nostre. Al tempo stesso, la nostra unicità ci rende responsabili verso la nostra vita: non possiamo e non vogliamo sprecarla. Del resto, se la nostra vita non avesse senso, non ne avrebbero nemmeno le cose che ci sono successe: sarebbero solo eventi casuali e trascurabili da dimenticare al più presto. Invece mettere ordine nei ricordi, ricostruire per frammenti la propria storia, è il primo passo per trovarne il significato. Ed è quello che si è cercato di fare.

Frammenti di memoria autobiografica

I miei ricordi più belli sono quelli della mia prima infanzia. Non ero la solita bambina dolce e quieta; tuttavia perché non riaprire un vecchio cassetto e spolverarlo un po’ ? I miei primi ricordi risalgono all’età di tre anni, ma il più vecchio è questo. Ricordo che tutti dormivano nel mio dormitorio dell’asilo e che quando cercavo di comunicare con la mia migliore amica di quei tempi, quella non replicava mai. Allora facevo finta di scivolare piano piano dal mio lettino ruvido e poco confortevole, quando le insegnanti si distraevano mi intrufolavo sotto i lettini degli altri compagni, strisciavo sotto ciascuno e andavo dalla mia migliore amica per ciarlare un po’, ma la trovavo costantemente a dormire. Mi beccarono parecchie volte e le maestre più severe mi spostavano dall’altra parte della stanza dove i pelouche dei bambini profumavano intensamente. Non riuscivo mai ad addormentarmi, non so neanche bene il motivo, però talvolta facevo finta per dimostrare che sonnecchiavo anch’io: una sorta di gara. Tre anni dopo ero sempre la solita bambina agitata, ma con un’idea nuova per scaricare le mie energie. Vedevo spesso in Tv delle ginnaste e mi sorprendeva la loro agilità. Era un giorno qualunque quando mia madre mi portò a delle prove di ginnastica sia ritmica che artistica: benché analizzassi bene la mia scelta, a prima vista ero già certa di ciò che avrei fatto. Era ovviamente la ritmica, che pratico tutt’ora da otto anni. La prima volta che mi allenai, sbagliai l’orario d’allenamento e, temeraria come ero, nell’attesa presi un Estathè al limone, ignara che durante l’allenamento sarebbe stato un continuo mal di pancia, ma ciò non mi fermò mai. Pur stando male riuscivo a pensare solo alle cose strabilianti che facevano le mie compagne. Mi misi pure a piangere perché avevo paura di fare il ponte indietro, più semplicemente: andare indietro con la schiena e le braccia, e appoggiare le mani per terra. Non saprei trovare un motivo, forse avevo paura di cadere…chi lo sa. Ricordo un forte odore di piedi che proveniva dalle pedane ma anche il dolce profumo della mia insegnante. Successivamente iniziarono le elementari ed è lì che ho iniziato a stare buona, ero la riservata della classe… preferivo che nessuno notasse la mia presenza, ma nonostante ciò ero piena di amici. Passano cinque anni e tutto inizia a cambiare, arriva il COVID che nel 2019 non era ben compreso e quando scoprii di non poter salutare per l’ultima volta i miei amici migliori ci rimasi malissimo. Adesso mi trovo in una situazione difficile, mi manca tutto delle elementari, vorrei ritornare sempre a quei momenti lì, ma purtroppo non è possibile. Il tempo è passato troppo in fretta. È stata un colpo basso questa pandemia, mi sembra ancora più strano che per noi oggi sia la normalità vivere così. È un tormento che ho tutti i giorni. Benché sia difficile vivere a questo modo, i miei ricordi dell’infanzia mi tireranno sempre su di morale. Ricorderò tutto con amore e me lo terrò ben stretto tra le mani. 

Amalia Sabatini, 2F

***

La mia infanzia è trascorsa tranquilla con l’affetto dei miei genitori e di un fratello, anche se a volte dispettoso. 

Ricordo che all’età di tre anni io e la mia famiglia siamo andati alla “casa di Babbo Natale”. A differenza di molti bambini che andavano incontro a Babbo Natale io no, perché avevo paura vedendo una figura sconosciuta circondata da così tante persone. Invece mio fratello di poco più grande di me gli andò incontro prendendomi in giro. Ma io mi sentivo più a sicuro vicino a mia mamma. Dopo qualche anno provai la stessa sensazione di quando mi ritrovai al primo banco il primo giorno di scuola elementare, con due maestre che mi guardavano. Non volevo che mi guardassero il quaderno! Così decisi di mettere l’astuccio accanto al quaderno; in modo che non potessero sbirciare. Ma le maestre si accorsero della mia strategia e mi fecero togliere l’astuccio. E questa ero io: timida, riservata, silenziosa, una persona a cui non piaceva essere al centro dell’attenzione. Alcuni anni più tardi, a nove anni, andai al Parco Avventura con mio fratello e i miei cugini. Bisognava arrampicarsi per compiere dei percorsi segnati. Io me la stavo cavando bene, ma quando sentivo dire “fai come Matilde” mi sentivo bloccata nei movimenti perché vedevo che tutti mi stavano osservando. Mi feci coraggio e andai avanti superando il mio piccolo disagio. Ho dei bellissimi ricordi con la mia famiglia in vacanza e di mio fratello come compagno di gioco. Non riuscivo a fare amicizia con altri bambini; avevo lui e mi bastava. Ora sono cresciuta, ma non sono cambiata molto. Ho delle amicizie ma sono ben selezionate perché non mi piace la troppa confusione. Preferisco la semplicità e la calma. Un altro ricordo risale a dieci anni. Ricordo di essermi andata a fare i buchi per gli orecchini. Avevo un po’ paura ma mi decisi anche perché l’aveva fatto già mia cugina, che ha la mia età.  

Benché la mia vita sia frenata dalla mia timidezza, sono contenta così. 

Matilde Genserico 2F

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La mia infanzia per certi versi è stata simile a quella di molti bambini, per altri no. 

I miei primi ricordi risalgono a quando andavo alla materna, un giorno mentre giocavo in giardino , stavo correndo e inciampai sullo scivolo. In quel momento mi resi conto di essermi fatto parecchio male . Le maestre accorsero subito da me e chiamarono immediatamente i miei nonni. I nonni arrivarono subito ed erano molto preoccupati. Una volta arrivati a casa i miei nonni chiamarono mia mamma , che arrivò a casa e mi portò al pronto soccorso. 

 La mia infanzia non è del tutto simile a quella degli altri bambini, perché quando avevo cinque anni il mio babbo e la mia mamma si sono lasciati : il babbo lo andavo a trovare solo il fine settimana , lui nelle cose più importanti non c’è quasi mai stato. Uno dei miei ricordi più tristi risale a quando andavo in terza elementare , quando mia nonna paterna è venuta a mancare. Quel periodo per me è stato pessimo, ma per fortuna avevo vicino a me gli altri miei nonni e la mia mamma. Alcuni anni dopo, precisamente l’anno scorso, il mio babbo si è voluto trasferire a Milano , per rifarsi una vita con un’altra persona. A settembre di quest’anno è nata mia sorella Mirea .

Nei miei dodici anni di vita ne ho vissute veramente tante e alcune cose mi hanno segnato. 

      Mattia Francesco Condemi 

***

Oggi vi parlerò della mia infanzia. 

Sin da piccolo sono sempre stato abbastanza calmo, mi piaceva giocare a palla e adoravo guardare Peppa Pig prima di dormire. 

Ricordo che avevo 4 anni e con la mamma abbiamo fatto una vacanza a Grosseto in una fattoria. 

La cucina era grandissima, era piena di salami e prosciutti attaccati al soffitto. I proprietari erano marito e moglie, Alvaro e Carla, erano sempre sporchi dal lavoro nei campi perché passavano le giornate a raccogliere la frutta e la verdura da vendere. 

La mattina presto andavo con Carlo a prendere il latte nella stalla dalle vacche, ricordo che c’era un fetore tremendo e tante mosche. 

Il pomeriggio con la mamma andavo al mare. 

Per la strada c’erano le volpi, stavano in attesa di qualche avanzo da mangiare. 

La sera andavo con Alvaro a dare il biberon di latte al maialino, anche lì c’era tanta puzza, lui se lo beveva tutto e poi tornava dalla mamma. 

Benché gli anni passino veloci, restano i ricordi che mi riempiono il cuore di felicità, come la prima volta che sono andato a Gardaland, avevo 8 anni e non avevo mai visto delle giostre così grandi e belle. 

L’ingresso era sfarzoso, ricco di luci, un tunnel di luci che ti accompagna in un mondo fantastico, un po’ come Lucignolo nel paese dei balocchi. 

Ero carico di adrenalina e sono salito su tutte le giostre. 

La giostra che più mi è piaciuta si chiama Blu Tornado, seguita da Oblivion. 

Abbiamo passato tutta la giornata in completo divertimento fino a quando mi sono sentito stanco anche se ero felicissimo. 

Ricordo che in quell’anno sono andato in Sicilia e per la prima volta ho preso una grande nave, siamo stati svegli fino a tardi perché c’era una festa e verso mezzanotte siamo andati a letto perché alle 5:00 la nave sarebbe arrivata a Palermo. 

Benché gli anni passino ho tanti ricordi di quando ero piccolo, ricordi che niente potrà cancellare. 

Diego Calanchi 2F

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La mia infanzia è stata semplice, unica e bella come quella di molti altri bambini. I miei primi ricordi risalgono all’età di quasi tre anni e grazie alla tecnologia sono stati aiutati dalla videocamera, mentre poi con gli anni sono stati trasportati sul computer, tramite chiavette USB. Il primo ricordo che ho è di quando ho scambiato mio papà con mio nonno e questa cosa succedeva abbastanza spesso. I due anni seguenti passarono velocemente e non ne ho ricordi significativi così mi ritrovai all’età di cinque anni. Quell’età fu caratterizzata da un evento da cui nacque la mia passione: il calcio. Ricordo che iniziai perché i miei genitori non volevano che stessi in casa, insomma mi volevano impegnato nonostante la mia giovane età. Ricordo la mia felicità perché iniziai a giocare in una società e non ai semplici giardini con l’erba alta. Penso che mio papà fosse più felice di me, infatti quando arrivai, iniziò a filmare tutto, con la videocamera che aveva usato anche nel mio primo ricordo. Ricordo che i miei scarpini mi stavano stretti ed io glielo dissi, ma non mi ascoltava. Arrivato sul campo, mi sentivo un calciatore, anche se avevo visto poche partite di calcio prima. L’erba era stata appena tagliata ed era profumata e pulita. Ricordo che, felice, mio babbo urlava: “Bravo Francy!”. Anche questo ricordo è stato facilitato dalle videocamere, ma vagamente è impresso nella mia memoria. Un anno dopo, ci fu un altro evento importante: l’inizio della mia carriera scolastica: avevo sei anni compiuti ed era il primo giorno di elementari però non mi ricordo molte cose, tranne che ero molto felice e che al cancello c’erano molti genitori e bambini, infatti riesco a sentire ancora il loro brusio. Ci fu inoltre un altro evento importante: imparai, finalmente all’età di sei anni, ad andare in bicicletta. Fu un’emozione indescrivibile e bellissima. Il mio tutor fu mio fratello Riccardo, che dopo aver preso la mia bicicletta dell’epoca nel garage e dopo averle tolto le rotelline, mi diede le istruzioni che ancora ricordo: dopo aver inserito il casco e le protezioni dovevo andare più dritto possibile per circa dodici metri o più, dove lui sarebbe stato ad aspettarmi. Egli si mise in posizione ed io terrorizzato, salii sulla bici. Partii e dopo pochi metri, caddi a terra e da qui capii che certe cose non le afferro alla prima. Però mio fratello ebbe pazienza e dopo diversi tentativi ce la feci. Ricordo bene il tentativo riuscito: tutta l’ansia sparì, io partii, stranamente non persi l’equilibro ed appena arrivai verso la fine, ci fu un altro problema: non sapevo né frenare né inchiodare ed allora mi buttai sull’erba accanto dove si trovava mio fratello. Quest’ultimo riuscì a fermare la bicicletta, dopo averla scansata. Io e lui iniziammo a ridere, ed andammo a dare la notizia al nostro babbo. Sempre a sei anni, feci le prime amicizie: i miei primi amici furono Jacopo e Giulio con cui tutt’ora sono in buoni rapporti, nonostante non siamo compagni di classe. Jacopo e Giulio sono due persone totalmente diverse: Jacopo è un ragazzo alto, biondo e con gli occhi marroni, invece Giulio il contrario. Un aggettivo che li descrive perfettamente è “testardi”. La maggior parte delle mie foto dai sei ai dieci anni è con loro ed alle elementari ci chiamavano “i tre Moschettieri”. Eravamo e siamo inseparabili e chiacchieroni, quando usciamo. Alcuni anni dopo passai dalle elementari alle medie e fu l’inizio di una nuova avventura. Ero pronto, finalmente si apriva un nuovo capitolo della mia vita, con nuove amicizie e voti. Benché la mia vita possa sembrare noiosa e monotona, è ricca di peripezie e mi piace come la sto vivendo. 

Francesco Bonacchi 2F 

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Ero una bimba come tante altre: tranquilla e solare, ma spesso facevo confusione. 

I miei primi ricordi risalgono all’età di tre anni quando sono caduta dal marciapiede: vedevo le macchine colorate e i fiorellini al bordo della strada, sentivo i clacson delle auto e gli uomini che chiacchieravano al bar, mentre stavo con la faccia schiacciata al suolo. Camminavo felice, quando ricordo di essere inciampata e caduta dal marciapiede: mi ero fatta un bernoccolo. Subito dopo mia mamma mi mise il ghiaccio, però il bernoccolo andò via solo dopo circa due settimane. Ricordo che sin da piccola guardavo le partite di calcio con mio babbo e appena finivano imitavo i giocatori giocando a calcio anch’io. Successivamente iniziò l’asilo, io non volevo andarci perché le bambine mi stavano antipatiche, ma pian piano iniziai a fare amicizia. Quell’estate ricordo che andai in Albania in vacanza con mia cugina, spesso c’era brutto tempo quindi  di conseguenza dovevamo stare a casa: ricordo quella volta in cui ci eravamo intrufolate nell’armadio delle nostre mamme e avevamo preso i loro enormi vestiti rossi e li avevamo indossati. Ricordo di aver toccato i vestiti di un velluto morbido e liscio e di averne sentito l’odore: un odore nuovo e fresco. Quegli abiti erano lunghi e stretti, ma a noi stavano larghi. Qualche mesetto dopo nacque mio fratello; fu un giorno per me indimenticabile, ricordo che era un pomeriggio, mia mamma e mio babbo stavano andando all’ospedale, io ero rimasta con i miei zii e stavo facendo il riposino pomeridiano: appena mia zia mi svegliò, mi dette la bella notizia. Io ero entusiasta di andarlo a vedere e dopo aver fatto merenda mi ci feci portare, correvo per i corridoi dell’ospedale dalla felicità e appena mia zia mi aprì la porta vidi mio fratello: stava piangendo, io ero felice e lo abbracciai. Da lì capii che era un perfetto compagno di giochi anche se litigavamo spesso. Dopo qualche tempo cominciarono le elementari: ricordo di essermi seduta al primo banco e di aver visto i visi delle maestre emozionate che stavano per iniziare a presentarsi. E quelli furono cinque anni di litigi e amicizie. Alcuni anni dopo stava per iniziare la scuola media: ero in ansia il primo giorno, ma poi feci amicizie anche qui. Benché la mia vita sia stata perfetta fino ad ora, da adesso in poi vedremo come sarà, ma questa è un’altra storia… 

Marina Velli

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Sebbene la mia infanzia sia stata simile alle altre, io ho avuto molti problemi. 

Da bambina a circa due – tre anni, ero andata a mangiare da mia nonna a cena per poi rimanere a dormire. Dopo cena mia nonna mi diede una caramella e io, intelligente come sono, mostro la caramella al cane , così lui fa per prendermela mordendomi da sotto l’occhio a sopra la bocca (praticamente mezza faccia ). 

Ricordo di aver visto il sangue rosso per terra che fuoriusciva dalla mia bocca, sento ancora le urla di mia nonna e mia mamma, tra l’altro io non sentivo dolore ma vedendo loro due urlare e piangere  urlavo, ma più urlavo più mi si apriva la ferita; infine ricordo il sapore dolciastro del sangue. 

L’anno dopo passò in fretta perché mi presero il mio fratello peloso: Lampo, ovvero il mio cane. 

Appena entrato in casa, era all’incirca dicembre, Lampo ha sempre dormito con me; mettevo sempre la sua cuccia sotto o davanti al mio letto. 

Dopo due mesi tutti insieme, con i miei zii e le mie cugine , andammo al parco di Peccioli dove il mio cane fece conoscenza con il resto del mondo, con tutto il verde, con gli altri cani.  

Ambra Valli 

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Oggi racconterò la storia di una bambina molto calma e tranquilla che in certe situazioni però perdeva il controllo. 

Il mio primo ricordo risale al mio terzo compleanno mentre degli anni precedenti a quello non ho memoria. 

Del mio compleanno ricordo bene come era addobbato tutto in rosa, erano invitati tutti i miei amichetti dell’asilo e i miei parenti. 

Questi particolari me li ricordo grazie alle foto che mia mamma faceva e che ora conserviamo nel computer. 

Pur essendo nata a maggio, quel giorno pioveva e in fretta e furia i grandi misero i tavoli e le sedie al coperto. 

Le sedie per i bambini erano quella specie di panchetti molto scomodi dove picchiai anche il ginocchio. 

Nei due anni successivi non successe niente di importante, ma nel 2014 ci fu un grande avvenimento: l’arrivo del mio cagnolino Trudy. 

I miei genitori dovettero andarlo a prendere a Bologna quindi partirono la sera a tornarono dopo numerose tappe, la mattina seguente. 

Io e mia sorella quella sera dormimmo dai miei nonni e mi ricordo che prima di addormentarci guardammo i Simpson nonché il nostro cartone animato preferito. 

Ci svegliammo la mattina dopo e i miei genitori stavano per tornare a casa mentre noi eravamo a fare colazione con quel buonissimo cornetto al cioccolato e una tazza di latte. 

Andammo a casa e trovammo il piccolo cagnolino sulla sua nuova cuccia. 

Trudy purtroppo già molto malato e con il tempo peggiorò, ma dopo numerose visite dal veterinario guarì, adesso a ben sette anni. 

Dopo qualche anno, quando mia sorella superò la paura dell’aereo andai a New York con la mia famiglia e dei nostri amici. 

Nel 2016 “volai” in America, ricordo benissimo che partimmo la sera per fare il viaggio di notte e il sapore dalla cena dell’aereo era disgustoso. 

Arrivammo lì all’alba senza aver chiuso occhio in volo e la prima cosa che feci fu mangiare un muffin al bar sotto all’hotel di cui non ricordo il nome. 

Ogni mattina faceva un freddo gelido e per quello ogni volta litigavo con mia mamma per non mettere le calze scomode sotto la tuta e per non mettere gli scalda muscoli che erano troppo grandi per me che avevo solo sei anni e quindi mi arrivavano al ginocchio. 

Un giorno andammo al Central Park dove c’erano tanti scoiattoli che si arrampicavano sugli alberi. 

Questo è tutto ciò che mi ricordo della mia infanzia purtroppo. 

Benché la mia vita sia ancora molto breve, spero che sarà un’avventura piena di cose indimenticabili. 

Greta Rosati

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La soddisfazione era pronta a salpare: una mattina buia e tempestosa, mentre stavo dormendo sentii i passi rumorosi di mia madre che si avvicinava verso il mio letto, mi svegliò con un bel bacio sulla guancia. 

Appena mi alzai un profumo di torta al cioccolato mi inondava il naso. 

Morsi subito la prima fetta: era così morbida e dolce che si scioglieva in bocca. 

Dopo aver finito di mangiare, la mia mamma mi portò un pacchetto incartato con un’altra sorpresa: una scatola bianca, rigida e dura che non riuscivo ad aprire. 

Al suo interno c’era un nuovissimo Nintendo 3 ds che io desideravo da tantissimo tempo. 

Avevo solo 4 anni, ma ero già un fan sfegatato di super Mario. 

Questo è senz’altro altro il mio ricordo più lontano. 

 Un anno dopo inizia il calcio, il secondo sport dopo aver praticato karate. 

Mi ricordo l’odore di erba tagliata da poco, l’odore dei palloni di plastica e il profumo delle mamme che salutavano i propri figli. 

Sentivo tantissimo le grida dei bambini che piangevano perché volevano che le loro mamma tornassero da loro. 

Quando toccai per la prima volta il pallone, sentii subito che mi sarebbe piaciuto molto. 

Quando iniziammo l’allenamento per la prima volta quasi tutti i bambini non erano bravi, ma io e il mio migliore amico eravamo molto capaci, quindi i mister ci mandarono con i 2008. 

Tutt’ oggi continuo a giocare con il mio migliore amico nella stessa squadra da quando abbiamo iniziato. 

 Dopo qualche settimana dall’ inizio della scuola calcio, ho fatto la mia prima partita con avversari la squadra del Casalguidi. 

Ero molto preoccupato perché non sapevo se ero in grado di giocare bene come pensavo. 

L’ allenatore mi aveva schierato nel ruolo dell’attaccante mentre il mio amico giocava sulla fascia destra. 

La squadra era composta solo da 5 giocatori perché all’ inizio i “Pulcini” giocano sempre in numero ridotto. 

Durante la prima partita Alessandro segnò il primo gol e ci fece vincere. 

Io riuscii a fare goal solo durante la seconda partita perché ero meno teso e nervoso. 

Mi sembrava di giocare da sempre. Il tempo era brutto e pioveva a dirotto, il gol che segnai fu  molto strano perché gli avversari mi fecero cadere, ma rotolando riuscii a centrare la palla spingendola in rete.  

Questi tre ricordi sono quelli più importanti della mia vita, benché la mia infanzia possa sembrare quella di una giovane promessa del calcio, solo il tempo dirà quello che sarà il mio futuro. 

Niccolò Papini

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Benché la mia vita a volte mi sembri confusa, questi ricordi non li dimenticherò mai e li considero importanti. 

Quando avevo sei anni ero andato al lago di Bled, era inverno e si era noleggiato una barchetta, ma l’acqua era ghiacciata. Ricordo l’abbagliare insistito del mio cane e il souvenir che comprammo: era una bottiglia di vetro. 

Qualche anno dopo era il mio ottavo compleanno, la torta era grande, fatta con cioccolato, panna e fragole, era buonissima, le candele erano blu e bianche con i numeri. I bambini urlavano, i regali erano maglie, felpe, pantaloni e un gioco per la ps4 con cui ogni giorno giocavo.  

Due anni prima del mio compleanno ero andato alle grotte di Postojnska, in Croazia. Era molto buio, freddo e le stalattiti erano umide. Ricordo che a pranzo siamo andati a mangiare un panino: io con solo la carne, mio fratello con l’insalata, la carne e la salsa, mia mamma con la cipolla, carne, maionese e insalata, mio padre con insalata, carne, salsa e broccoli. Il souvenir questa volta era uno schiaccianoci. 

Un anno dopo ero andato al mare in Abruzzo per la prima volta, ci andiamo ancora adesso, (è da sei anni di fila che ci andiamo), c’era la sala giochi (per bambini di quattro anni), un salotto con otto poltrone arancioni, comode, potevano starci in tre persone, un bar, una piscina, due piscine al mare e poi si poteva anche fare l’aperitivo la sera, alcune volte di sabato anche il cabaret. Un anno dopo ero andato all’Abetone, faceva freddissimo, tanto che mi ero messo: due felpe, il giubbotto, la sciarpa, un cappellino di lana e i guanti: non riuscivo più a respirare con tutta quella roba addosso mi pareva che ci fossero trenta gradi, però la neve era sempre gelida. C’era un ristorante, mi ricordo che abbiamo mangiato benissimo.  

A dire il vero non ricordo molto altro, ma questo basta. 

Daniel La Carbona 

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La felicità di un bambino risiede nell’essere spensierati, e sì questo è stato proprio il mio caso. 

Il mio primo ricordo risale al primo giorno di scuola della seconda elementare, cioè all’età di 6 anni. Avevo cambiato istituto, perché non mi trovavo bene, ma si è rivelata una vera e propria avventura. Il primo giorno ero impaurita, piangevo e non volevo proprio andarci, insomma non ne volevo proprio sapere. La mattina stessa quando mi preparavo l’ansia saliva, ma non sapevo nemmeno io il perché. Sarà stato il pensiero di non piacere ai compagni, di non risultare carina e amichevole. Quando entrai a scuola c’erano molti bambini: c’era chi era felice, chi piangeva, oppure c’era chi era semplicemente sereno. Provavo ammirazione verso i bambini di quinta, perché erano tranquilli e ormai quella “procedura” l’avevano già vissuta ben cinque volte. Passavo la maggior parte del tempo malata con l’influenza, ma insomma quello era normale per la mia età. Mi prendevo sempre qualche malanno, perché perennemente ero a maniche corte (come del resto ora) anche in inverno. Mi ero messa accanto ad una bambina che mi aveva accolto: si chiamava Giulia e diventò subito la mia migliore amica: sì, ci avevo messo davvero poco a capirlo. I primi mesi eravamo tutte e due timide, ma poi ci siamo avvicinate. In quinta elementare purtroppo ci hanno diviso tutti, ognuno a casa propria. Arrivò il maledetto virus, che non ci permise di finire l’anno scolastico; lo finimmo in D.A.D. (la didattica a distanza). Non si poté fare la recita di fine anno, né i ringraziamenti alle maestre. Insomma fu un anno incompleto. Circa un anno dopo cambiai casa, perché la mia era troppo piccola. Volevamo un animale e nella casa nuova c’erano più possibilità, visto che c’era il giardino. Ricordo il forte odore di vernice, la casa tutta a soqquadro e le piccole sporgenze del pavimento che ti facevano cadere se non tenevi gli occhi ben aperti. Ma c’era anche un aspetto meraviglioso: tutti i pasti li facevamo dalla nonna, e lì si che era festa. Mangiavamo lì, perché non avevamo ancora montato la cucina, e vi assicuro che mangiare al ristorante sarebbe stato molto peggio (saremmo ingrassati dieci chili). Ricordo ancora la prima notte in cui abbiamo dormito nei letti nuovi: sono sincera, avevo paura, poiché era tutto diverso. Alla fine dei lavori la casa era venuta bellissima, era la mia piccola casa dei sogni. Benché la mia vita sia ancora incompleta, di questo breve arco temporale posso sentirmi soddisfatta. 

Vittoria Biagini  

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La mia infanzia è stata piena di castelli, principi, principesse e occupata a tempo pieno dalla danza. Direi infatti un’infanzia comune, ma allo stesso tempo particolare a suo modo. I miei primi ricordi risalgono all’età di quattro anni, tramite video che ancora oggi riguardo immedesimandomi in quella bambina. Mi ricordo particolarmente la mia borsa rosa delle  Winx che utilizzavo per andare a danza. Mi ricordo molto bene l’odore delle calze color carne, erano profumate di rosa ed era un incantevole odore da annusare. Il gel che mia mamma utilizzava per farmi lo chignon mi ricordava la fragranza della fragola: dolce e intenso allo stesso tempo. I miei body erano tutti molto colorati, ma il mio preferito era di un bianco intenso che mettevo sempre insieme al mio tutù. Era di tessuto ruvido, come  il velo delle spose. Ricordo quelle tranquille melodie su cui ballavo immaginandomi di aver davanti un pubblico strepitoso che mi acclamava a fine dell’esibizione! Questo ricordo risale all’età di quattro anni ed è sempre stato il mio preferito perché far la ballerina è sempre stato il mio sogno. Un paio di anni dopo Babbo Natale mi portò il mio primo Cicciobello. Quel fantastico bamboccio di plastica aveva i capelli biondi e gli occhi celesti come il cielo d’ agosto . Aveva il ciuccio color turchese ed era molto duro come le sue mani, i piedi e il suo tondeggiante volto. Ricordo di lui soprattutto i suoi biondi capelli molto soffici e folti, ma anche il suo pianto. Era odioso da ascoltare, non lo sopportavo proprio, per questo non gli toglievo mai il ciuccio. Tuttavia benchè la mia vita sia stata breve ed allegra, ci sono stati anche momenti molto tristi, infatti pochi anni dopo dall’ arrivo di Cicciobello morì Nerino, il cane di mia nonna. Ed è stato per me un periodo molto triste perché lui  quando ero sola era sempre il primo a farmi compagnia e pronto a giocare con me. In suo ricordo mia nonna mi regalò un anello molto grossolano con all’interno la foto di Nerino. 

A questo anello tengo particolarmente e lo custodisco con amore. 

Martina Bertini 

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Adesso la mia vita continua ma certe cose non le scorderò mai… 

Forse il più antico tra i miei ricordi è la nascita di mio fratello: ricordo solo lui e mia madre nel lettino dell’ospedale, lei era sdraiata, mentre guardava quel bambino inconsapevole che sarebbe diventato una “bestia del male” (!) 

Tempo dopo mia madre mi disse che ci saremmo dovuti trasferire. Il giorno seguente andai dall’unica amica che avevo e le diedi la notizia. Quando arrivai al nuovo asilo, mi ricordo l’odore del fresco di quella mattina d’autunno dentro le narici. Appena entrai nella mia nuova classe ero molto imbarazzata, avevo molta paura di sembrare diversa dagli altri. Parlavo a malapena. 

Infatti fu la maestra che mi presentò alla classe e subito dopo disse a una mia compagna di venirmi a prendere per farmi giocare con lei, Nel mentre tutti gli altri mi guardavano parlando tra di loro. Con questa ragazza ho passato anche le elementari. Infatti il primo giorno ci eravamo fatte fare anche una foto insieme dalle nostre madri prima di entrare. Appena fummo entrate ci mettemmo a sedere accanto in prima fila, ma già da quel momento avevano in mente di cambiarci di posto dividendoci. 

Ricordo le urla di alcuni bambini quando le madri andarono via: io mi misi a piangere, e questo continuò ad accadere per gli anni successivi. Quando arrivò mezzogiorno e dovemmo uscire ricordo faceva molto caldo.  

Duranti questi anni nella nostra classe giunsero alcuni nuovi alunnni, come ad esempio una ragazzina di nome Vittoria che arrivò in seconda; ci siamo divertite molto insieme in certi momenti. Mi ricordo molto bene quando durante l’ora di grammatica ci buttarono fuori dalla classe perché ci eravamo alzate, la buttammo sul ridere e ci divertimmo molto. Benché la mia vita possa sembrare noiosa, è unica e speciale come quella di ognuno. 

Lorenza Kercunga, 2F

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Tutte le persone sono state bambine e hanno vissuto quella fase della loro vita al loro meglio, ma la mia è un’infanzia particolare. Il mio primo ricordo è di quando da piccina, all’età di quattro anni, andavo al mare.  

Ricordo tutte le risate che facevamo io ed i miei amici perché facevamo scherzi a sconosciuti. Ogni giorno andavamo a fare il bagno tutti insieme e vedevo sempre le onde del mare schiantarsi sulla sabbia. Ricordo quando facevamo i vulcani con la sabbia bagnata e mi rimanevano tra le dita quei granelli umidi e  ruvidi. Ogni sera dopo cena al mare andavo insieme ai miei genitori e agli zii a mangiare un algido gelato e ricordo il profumo di quello al cioccolato del mio babbo. 

 Alcuni anni dopo entrai a scuola, la prima elementare. Inizialmente ero terrorizzata dagli insegnanti e dall’idea di non trovarmi bene con loro, però poi conobbi delle persone molto gentili e simpatiche. Ricordo i bambini che erano felici mentre salutavano i propri genitori. Ricordo i pranzi della mensa che secondo me avevano un cattivo sapore e odore.  

Alcuni anni dopo iniziai pattinaggio con la mia amica Vittoria. Il pattinaggio mi ha aiutato a conoscere nuove persone, che poi sono diventate mie amiche. Il pattinaggio è uno sport molto faticoso, ma bello. 

Benché la mia storia per ora sia breve sono certa che ci saranno altre belle avventure da vivere. 

Giulia Bardazzi 2F 

Ho molti ricordi della mia infanzia, ma tre di questi non me li scorderò mai.  

Il mio primo saggio di danza l’ho fatto all’età di quattro anni, al teatro Manzoni di Pistoia. L’ambiente era molto lussuoso ed elegante; aveva anche dei riflettori molto luminosi i quali mi accecavano ma allo stesso tempo mi faceva sentire una vera e propria star. Ricordo ancora oggi le canzoni movimentate e il ritmo sul quale danzavo così come il cigolio del palco. Mentre facevo le prove, avevo timore di cadere perché le assi erano scivolose. Prima di esibirmi andavo sempre a mangiare la pizza con la mia amica Asia: era croccante e gustosa. Alla fine dello spettacolo i miei genitori mi aspettavano all’uscita con un bouquet di rose dall’odore intenso e pungente. Due anni dopo incominciai le elementari: avevo imparato a leggere e a scrivere. Già dalla prima elementare ci avevano insegnato a fare temi, continuai così per tutti i cinque anni. Alcuni anni dopo i miei genitori mi fecero la sorpresa di portarmi a Mirabilandia. C’erano molte giostre, luminose e alte. C’era anche la musica: la sua melodia martellava le mie orecchie. Quando salivo sulle giostre avevo sempre quel vuoto nello stomaco, e dalla paura di cadere mi ci aggrappavo con mani fredde e sudate. Finito il terrore delle giostre, ricordo che sentii l’odore delizioso dei bomboloni alla crema. Una volta presi e mangiati la mia faccia si ricoprì di granelli di zucchero, mentre deglutivo l’ultimo boccone dal sapore dolce e cremoso. 

Benché abbia molti ricordi, questi tre sono unici… 

RINALDI VIOLA 

CLASSE 2 F 

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La mia vita. 

La mia infanzia somiglia a quella di altri molti bambini. 

Il mio ricordo più lontano è quando a 4 anni mi sono fatta 

male al ginocchio, e al pronto soccorso mi ricordo quella 

“stronza”, per così dire, con il neon abbagliante contro i miei occhi. Mentre i 

dottori mi stavano operando io li sentivo mormorare. Ad un 

certo punto mi ero addormentata, ma dopo un po’ mi 

risvegliai toccandomi il ginocchio che ormai avevano 

curato; era liscio e sembrava a posto, anche se mi faceva un po’ effetto. Mentre 

i miei genitori mi stavano accompagnando verso la 

macchina, mia mamma mi aveva dato un pezzo di 

cioccolato: era molto gustoso e aveva un sapore 

dolciastro. Un anno dopo, ho conosciuto la mia migliore 

amica alla scuola materna perché lei si divertiva a 

spingermi di sotto dall’altalena. Un giorno mi fece cadere in 

terra facendomi sbattere la testa; per fortuna non era 

successo niente. Mi aveva chiesto scusa, ma io ero ancora 

arrabbiata con lei. Quello stesso anno mi ricordo che per la 

prima volta ho visto il mare, e di essere andata in 

campeggio con la mia famiglia. C’era molta gente e lì mi 

ero divertita molto, anche perché ho conosciuto la mia 

amica Matilde; mi ricordo il suono rilassante che provocano 

le onde, la sabbia ruvida tra i miei piedi e per lo più l’odore 

del mare; infatti ero molto dispiaciuta quando andammo via. 

A 7 anni ho iniziato a praticare ginnastica artistica, cioè il 

mio sport preferito. Mi ricordo che i primi giorni ero molto 

timida ma dopo poche settimane parlavo già con tutte. Mi 

ricordo la voce acuta della mia insegnante e il pavimento 

duro e celeste della palestra. Mi ricordo che lì ho 

conosciuto la mia amica Sofia: io e lei a volte andavamo di nascosto a bere, ma da quando la nostra insegnante ci ha 

beccate, andiamo sempre con il suo permesso. 

Sara Fei 

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La mia infanzia è come quella di tutti i bambini, però ora vi parlo di alcuni miei ricordi. 

Quando era notte e tutti dormivano io iniziavo ad urlare e quindi tutte le volte la mia mamma chiedeva che andasse il mio babbo, quindi lui si alzava e veniva a prendermi in braccio, a calmarmi o sennò provava a darmi del latte: provava di tutto ma non c’era verso che mi addormentassi; poi il mio babbo andava da mia mamma, quindi lei si alzava e veniva da me coccolandomi e dandomi del latte: allora mi addormentavo in due secondi e a un certo punto si capì che il mio babbo non si doveva occupare di alzarsi più la notte per farmi addormentare. 

Ora vi racconto di un’altra storia di quando ero piccolo. La mia cantante preferita era Laura Pausini e mio nonno aveva 10 dei suoi dischi, quindi ogni volta che lui mi portava da qualche parte io mettevo un disco e stavo tutto il viaggio a cantare le sue canzoni. Una sera era in diretta in TV, perciò io ero un sacco felice di questa cosa, poi si è messa a cantare e mia mamma mi ha filmato mentre ballavo sul panchetto.  

Tempo dopo mio cugino era sempre da me, alcune volte perché i suoi genitori erano sempre a lavorare o sennò perché io volevo che lui stesse con me, io avevo delle poltrone di peluche pelosi e quindi io e mio cugino eravamo sempre lì che guardavamo la televisione insieme o sennò YouTube. Una volta mia mamma fece il video in cui eravamo io, mio cugino e mia sorella che ballavamo sulle note di una canzone e per me questo è il ricordo preferito.  

Ricordo di una volta che io e mia sorella chiedevamo un cane da un anno. Mentre si tornava da una partita di mia sorella, mia mamma stava guardando su Facebook di questa cucciolata e c’era scritto se qualcuno voleva un cucciolo; allora  la mamma lo chiese al babbo, perché era lui a non volerlo in quanto non voleva più piangere per la morte di un cane perché lui aveva già avuto due cani. Il mio babbo le disse “Fai come ti pare” e quindi mia mamma chiamò subito, però il problema era che c’era un’altra famiglia che voleva il nostro stesso cane, tuttavia la persona che decideva a chi dare il cane scelse noi perché quando il cane della signora era salito sul divano il signore lo aveva brontolato.  Il giorno che andammo a prendere il mio cane me lo ricordo come se fosse ieri, perché mi ricordo di cinque cuccioli che ci venivano incontro e il nostro era sempre a buttare fuori l’acqua dalla ciotola perché scavava come se fosse terra. Mi ricordo anche quando presi per la prima volta  tra le mani il mio cane che mi stava solo su una mano: era super carino perché era basso e tozzo come un würstel. Benché la mia via possa sembrare disastrosa, devo dire che crescendo mi sono calmato: da piccolo ero più agitato. Ed è bello crescere per scoprire cosa ancora succederà. 

Mirko Biagini 

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Il mio primo ricordo risale all’età di due anni, quando ho imparato ad andare in bici senza rotelle: ricordo che la prima volta caddi, poi mi rialzai e imparai. Mi ricordo ancora che la bici era gialla e nera. 

Una persona di cui non mi posso dimenticare è mio zio. Lui era sempre molto felice, anche se alla morte di suo padre (ovvero mio nonno) passò un brutto periodo, anche perché  nel frattempo si stava lasciando con sua moglie. 

Lui i sabati pomeriggi li passava con noi a casa nostra e pranzava con noi, veniva con una delle sue moto e lo sentivo da lontano da quanto era forte il rombo del motore, poi appena si avvicinava mi piaceva sentire l’odore della benzina. Una volta toccai la marmitta che era rovente e mi bruciai. 

 Di lui ricordo anche quando mi spingeva sull’altalena e che quando aumentava la velocità sentivo il suo profumo:  perfino ora lo sento; poi dall’altalena vedevo lui che sorrideva mentre mi spingeva. Ricordo che quando andavamo a pranzare lui si metteva a capotavola come mio babbo. Poi un giorno venne la sua morte: io avevo cinque anni, per me è stato molto traumatico perché ricordo tutto molto bene e ancora mi sembra di sentire la sua voce. Due anni fa ero ancora mortificato da questo fatto, ma entrando alle medie è come se l’avessi superato, però ci penso ancora e penso che mai me ne dimenticherò, perché l’ho sempre stimato, gli ho voluto bene e ancora lo vorrei in vita; era una bravissima persona e voleva bene a tutti.  

Sempre verso i cinque anni, quando andavamo in campeggio col mio babbo e con tutta la famiglia, io e il mio babbo stavamo sempre insieme, quindi eravamo in spiaggia fino alle sei insieme, e a quell’ora passava quell’uomo che vendeva i gelati, ne mangiavo uno e poi salivamo in roolutte e andavamo a farci la doccia nei bagni del campeggio preparandoci per la sera; cucinavamo insieme mentre mia mamma apparecchiava. Una volta finito di cenare andavamo a lavare i piatti, dopodiché andavamo a mangiare il gelato e a fare una girata: io, mio babbo e mia mamma, mio fratello no perché quando io avevo cinque anni lui ne aveva undici, ed essendoci sei anni di differenza, lui stava con i suoi amici. 

A quei tempi andavamo a pescare, io, mio babbo e mia mamma, anche se a lei non piace.  Una volta mi sentii male e mi addormentai sugli scogli. Quando mi svegliai, mio babbo aveva appena preso un tonno da quindici kg e dopo quaranta minuti ne prese un altro da dodici.  

La sera dopo si fece una cena con gli amici del campeggio e mi divertii tanto, c’era un odore particolare. 

Ricordo di quando a sei anni mi hanno portato a San Siro. Arrivai la mattina ma la partita c’era la sera, perciò siamo andati a fare un giro dai miei parenti di lì. La sera allo stadio c’era tanta gente, un tizio dietro al mio babbo prende una birra e per sbaglio esultando la rovesciò addosso a mio padre. 

Successivamente, all’età di dieci anni, andai in Abruzzo: lì ci abitano i miei parenti paterni. Ci siamo divertiti tanto e siamo andati anche al luna park. 

L’anno dopo i miei sono tornati in Abruzzo per prendermi il cane: io tutto questo non lo sapevo perché ero a dormire da un mio amico. Fu una sorpresa fantastica. 

Benché la mia vita sia un po’ particolare, non la cambierei con nessun’altra. 

Luca Pietri 

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A che serve la letteratura?

A che serve la letteratura? A nulla, per fortuna la letteratura non serve a nulla. A parte a rompere il guscio delle nostre piccole vite, a sognare in grande, a scoprire cos’è un uomo, a meravigliarsi di tutte le possibilità che non avevamo considerato e che pure stavano lì, sotto i nostri occhi.

Se cerchiamo modelli per imparare a esprimerci, li troviamo nella letteratura. Se ci chiediamo chi vorremmo diventare e in cosa consista la vera grandezza, nella letteratura c’è sicuramente qualche storia che fa al caso nostro. Per questo abbiamo provato a leggere Buzzati e a lasciarcene ispirare.

Dino Buzzati, “Grandezza dell’uomo”

Dino Buzzati

GRANDEZZA DELL’UOMO

Si era già fatto buio quando la porta della buia prigione fu aperta e le guardie scaraventarono dentro un vecchietto minuscolo e barbuto.

La barba di questo vecchietto era bianca e quasi più grande di lui. E nella greve penombra del carcere emanava una debole luce: ciò che fece, ai manigoldi là dentro, una certa impressione.

Ma per via della tenebra il vecchietto sulle prime non si era accorto che in quella specie di spelonca ci fosse altra gente e domandò:

“C’è qualcuno?”

Gli risposero vari sogghigni e mugolii. Quindi ci furono, secondo l’etichetta locale, le presentazioni.

“Riccardon Marcello” fece una voce roca “furto aggravato”.

Una    seconda    voce,    pure    discretamente

cavernosa:

“Bezzedà Carmelo, recidivo in truffa”.

E poi:

“Marfi Luciano, violenza carnale”. “Lavataro Max, innocente”.

Scrosciò una salva di grosse risate. La facezia infatti era piaciuta moltissimo dato che tutti conoscevano Lavataro come uno dei banditi più famosi e carichi di sangue. Quindi ancora:

“Esposito Enea, omicidio” e palpitò nella voce un fremito d’orgoglio.

“Muttironi Vincenzo” il tono era di trionfo “parricidio…E tu, vecchia pulce?”

“Io…” rispose il nuovo venuto “precisamente non so. Mi hanno fermato, mi hanno chiesto i documenti, io i documenti non li ho mai avuti”.

“Vagabondaggio, allora, puah!” disse uno con disprezzo. “E il tuo nome?”

“Io…io sono Morro, ehm ehm…detto

comunemente il Grande”.

“Morro il Grande, questa è mica male” commentò uno, invisibile, dal fondo. “Ti va un po’ largo, un nome simile. Ci stai dentro dieci volte”.

“Proprio così” disse il vecchietto con grande mansuetudine. “Ma la colpa non è mia. Me l’hanno cacciato addosso a scopo di dileggio, questo nome, io non ci posso fare niente. E mi procura delle noie, anche. Per esempio, una volta…ma è una storia troppo lunga…”

“Dai, dai, sputa fuori” incitò duramente uno di quei malnati “il tempo non ci manca”.

Tutti approvarono. Nella tetra noia del carcere qualsiasi diversivo era una festa.

“Bene” il vecchietto raccontò “un giorno che giravo per una città che forse è meglio tacere, vedo un grande palazzo con servitori che vanno e vengono dalla porta carichi di ogni ben

di  Dio.  Qui  si  dà  una  festa,  io  penso,  e  mi

avvicino per domandare l’elemosina. Non faccio in tempo che un marcantonio alto due metri mi abbranca per il collo. “Eccolo qui, il ladro” si mette a urlare “il ladro che ieri ha rubato la gualdrappa del nostro padrone. E ha anche il coraggio di tornare. Adesso di conteremo noi le ossa!” “Io?” rispondo. “Ma se ieri ero almeno a trenta miglia da qui. Com’è possibile?” “Ti ho visto con queste mie pupille, ti ho visto che te la filavi con la gualdrappa sulle spalle” e mi trascina nel cortile del palazzo. Io mi butto in ginocchio: “Ieri ero a trenta miglia almeno da qui. In questa città non sono mai stato, parola di Morro il Grande”. “Cosa?” fa l’energumeno guardandomi con tanto d’occhi. “Parola di Morro il Grande” io ripeto. Quello, da imbufalito che era, improvvisamente scoppia a ridere. “Morro il Grande?” dice. “Venite, venite a vedere questo pidocchio che dice di chiamarsi Morro il Grande” e a me: “Ma lo sai chi è Morro il Grande?”. “Oltre a me”

rispondo “non conosco nessun altro”. “Morro

il Grande” dice il sacripante “è nientemeno che il nostro eccellentissimo padrone. E tu, pezzente, osi usurparne il nome! Ora stai fresco. Ma eccolo qua che viene”.

“ Proprio così. Richiamato dalle grida, il padrone del palazzo era sceso personalmente nel cortile. Un mercante ricchissimo, l’uomo più ricco di tutta la città, forse del mondo. Si avvicina, domanda, guarda, ride, l’idea che un poveraccio come me porti il suo stesso nome, lo esilara. Ordina al servo di lasciarmi, mi invita a entrare, mi fa vedere tutte le sale piene zeppe di tesori, mi conduce perfino in una stanza corazzata dove ci erano mucchi così d’oro e di gemme, mi fa dar da mangiare e poi mi dice: “Questo caso, o vecchio mendìco che porti un nome uguale al mio, è tanto più straordinario perché anche a me, durante un viaggio in India, è capitata la stessa identica cosa. Ero andato al mercato per vendere e

subito, vedendo le preziose cose che portavo,

si erano fatti intorno in molti a chiedermi chi ero e da dove venivo. “Mi chiamo Morro il Grande” io rispondo. E quelli, con la faccia scura: “Morro il Grande? Che grandezza può essere mai la tua, volgarissimo mercante? La grandezza dell’uomo sta nell’intelletto. Di Morro il Grande ce n’è uno solo, e vive in questa città. Egli è l’orgoglio del nostro paese e tu, briccone, ora gli renderai conto della tua millanteria”. Mi prendono, mi legano e mi conducono da questo Morro di cui ignoravo l’esistenza. Era un famosissimo scienziato, filosofo, matematico, astronomo ed astrologo, venerato quasi come un dio. Per fortuna lui ha capito subito l’equivoco, si è messo a ridere, mi ha fatto liberare, poi mi ha condotto a visitare il suo laboratorio, la sua specola, i suoi meravigliosi strumenti tutti costruiti da lui. E infine ha detto:

“Questo caso, o nobile mercante straniero, è

tanto più straordinario perché anche a me, durante un viaggio nelle Isole del Levante, è capitata la stessa identica cosa. Mi era colà incamminato verso la cima di un vulcano che intendevo studiare, quando un gruppo di soldati, insospettiti dai miei abiti stranieri, mi fermarono per sapere chi fossi. E avevo fatto in tempo a pronunciare il mio nome che mi caricarono di catene trascinandomi verso la città. “Morro il grande?” mi dicevano “che grandezza mai può essere la tua, miserabile maestrucolo? La grandezza dell’uomo sta nella gesta eroiche. Di Morro il Grande ne esiste solo uno. È il signore di questa isola, il più valoroso guerriero che abbia mai fatto balenare la sua spada al sole. E ora ti farà decapitare”. Mi condussero infatti alla presenza del loro monarca che era un uomo dall’aspetto terribile. Per fortuna riuscii a spiegarmi e lo spaventoso guerriero si mise a ridere per la singolare  combinazione,  mi  fece  togliere   le

catene, mi donò ricche vesti, mi invitò a

entrare nella reggia e ad ammirare le splendide testimonianze delle sue vittorie su tutti i popoli delle isole vicine e lontane. Infine mi disse:

“Questo caso, o illustre scienziato che porti il medesimo mio nome, è tanto più straordinario perché anche a me, quando ero a combattere nella lontanissima terra denominata Europa, capitò la stessa identica cosa. Avanzavo infatti con i miei armati per una foresta quando mi si fecero incontro dei rozzi montanari che mi chiesero: “Chi sei tu che porti tanto fragore d’armi nel silenzio delle nostre selve?”. E io dissi: “Sono Morro il Grande” e pensavo che al solo nome sbigottissero. Invece quelli ebbero un sorriso di commiserazione, dicendo: “Morro il Grande? Tu vuoi scherzare. Che grandezza mai può essere la tua, vanaglorioso armigero? La grandezza dell’uomo sta nell’umiltà della carne e nell’elevazione dello

spirito. Di Morro il Grande ce n’è al mondo uno

solo e adesso ti condurremo da lui affinché tu veda la vera gloria dell’uomo”. Infatti mi guidarono in una solitaria valletta e qui in una misera capanna stava, vestito di cenci, un vecchietto dalla barba candida, che passava il tempo, mi dissero, contemplando la natura e adorando Dio; e onestamente devo ammettere che non avevo mai visto un essere umano più sereno, contento e probabilmente felice, ma per me in verità era ormai troppo tardi per cambiare strada”.

“Questo aveva raccontato il potente re dell’isola al sapiente scienziato e lo scienziato poi lo aveva narrato al ricchissimo mercante e il mercanto lo aveva detto al povero vecchietto presentatosi al suo palazzo per chiedere la carità. E tutti si chiamavano Morro e tutti, chi per una ragione o per l’altra, erano stati denominati grandi”.

Ora, nel tenebroso carcere, avendo il

vecchietto finito la sua storia, uno di quei furfanti domandò:

“E così, se il mio cranio non è pieno di stoppa, quel dannato vecchietto della capanna, il più grande di tutti, non saresti altro che tu?”

“Eh, cari figlioli” mormorò il barbuto senza rispondere né sì né no. “È una cosa buffa la vita!”

Allora per qualche istante i manigoldi che lo avevano ascoltato, tacquero, perché anche agli uomini più sciagurati certe cose danno parecchio da pensare.

Grandezza dell’uomo

Trovata senza documenti al porto di Santa Monica, presso Los Angeles, Mia Grande, una ragazzina di colore di 17 anni, venne scortata dai poliziotti in centrale e trattenuta in una cella provvisoria. Nella stanza c’erano altri tre ragazzi della sua età e una donna che avrà avuto una trentina d’anni; Mia cercò di allentare la tensione che c’era nell’aria, si presentò e lo fecero anche gli altri presenti. Uno dei ragazzi disse: “Ah ah, hai un nome molto importante per una ragazza come te, no? Comunque noi siamo Ryan, Brett e Noah, siamo qua per spaccio di droga”. Dopo questa affermazione si presentò anche la donna: “Piacere Mia, io invece mi chiamo Marika, mi messa dentro perché non avevo la mascherina e ieri sera ero a fare una passeggiata dopo il coprifuoco. Tu invece, Mia, perché sei qua?” “La mia storia è molto semplice da raccontare, ma viverla è stato molto complicato. Un anno fa i miei genitori sono riusciti a convincere i marinai di una nave che aveva fatto sosta sulla costa del Senegal, il mio paese natale, a farmi salire sul loro mezzo e portarmi alla loro destinazione, l’America, per cercare una vita migliore. Anche se io non volevo andarmene e lasciare tutti i miei familiari, sono partita per rendere felici i miei genitori. Quando sono arrivata qua a Los Angeles quattro mesi fa ho girato un po’ la città finché non ho incontrato una ragazza, famosissima su Instagram, che mi ha quasi investito con la sua auto e per scusarsi mi ha ospitato fino ad oggi nella sua bellissima casa. Nel conoscersi è saltato fuori che lei aveva il mio stesso nome, cioè Mia Grande.  Lei faceva l’ influencer come lavoro, riusciva a convincere tutti suoi follower a comprare i prodotti della sua linea di moda e quelli che sponsorizzava: era davvero brava.  Mi ha raccontato che sei mesi prima anche lei era stata quasi investita da una ragazza che aveva il nostro stesso nome e aveva un gran senso dello stile, si vestiva sempre bene ed era sempre aggiornata sulle ultime mode. A sua volta, essa aveva incontrato una ragazzina di nome Mia Grande, l’aveva conosciuta su una nave, in uno dei suoi  viaggi e la storia di quest’ultima Mia l’aveva colpita particolarmente, perché era una ragazzina molto giovane che lasciava la sua famiglia in Senegal contro la sua volontà, per sbarcare in America e provare a costruirsi una vita migliore. Questa è la mia storia, in breve” concluse Mia. Gli altri compagni di cella rimasero in silenzio: la ragazza era riuscita a vivere da sola là in America per quattro mesi, senza conoscere bene la lingua e senza avere amici, a parte la sua omonima investitrice. ​

Letizia Pierattini

LA GRANDEZZA AI TEMPI DEL VIRUS

4 Gennaio 2022, nello stato si è diffuso un virus dalla mortalità altissima che ha già infettato un terzo della popolazione e ucciso il 90% degli infetti, il presidente ha già ordinato un lockdown totale.

Lo youtuber Giacomo il Grande, preoccupato per la sua vita, decide di rifugiarsi in una vecchia casa di campagna lontano dalla civiltà a cui ritornare solo per prendere provviste, almeno fino a quando non sarà finita la pandemia. Ma scopre che non è stato l’unico ad avere questa idea, infatti dentro alla casa trova altre due persone, che si presentano:

-Salve, io mi chiamo Giacomo il Grande, e sono un pugile imbattibile.

-Che dici? Io sono il vero Giacomo il Grande, perché sono molto più ricco di voi tutti messi assieme.

-Anche io mi chiamo Giacomo il Grande -intervenne lo youtuber- ma io ho un milione di iscritti e sono famosissimo, quindi sono il solo a poter portare questo nome. Comunque c’è qualcun altro qui dentro?

-Sì- rispondono i due- c’è un vecchio; lo abbiamo trovato qui, dice di chiamarsi anche lui Giacomo il Grande.

-Ahahahah, ma perché si chiama così? Gli sta otto volte questo nome.

-Sai figliolo -intervenne il vecchio- non c’è bisogno di essere ricchissimi o famosissimi per essere grandi, basta essere in pace con se stessi.

Nardo Rogani

Nicole la grande

Si era fatto buio quando entrai in un bar, in pieno centro a Roma. Ordinai un cappuccino caldo e mi sedetti a un tavolino dove c’era già una persona, visto che gli altri erano tutti occupati. Mentre mi riscaldavo le mani ghiacciate dal gelido vento autunnale, guardavo di soppiatto la ragazza seduta di fronte a me: il suo viso angelico era incorniciato da una riccia e folta chioma di capelli rossi. Gli occhi di un verde intenso ammiravano le persone che passeggiando piene di buste in mano, tra una risata e l’altra, erano intente a comprare i primi regali natalizi. Non avevo voglia di starmene per i fatti miei a leggere un libro, perciò le offrii il biscotto che era arrivato insieme al cappuccino. -Come ti chiami?-le chiesi un po’ timidamente. -Nicole la Grande-mi rispose lei con una vocina delicata e quasi infantile. -Anche io mi chiamo così-e aggiunsi tra me e me – Ma come è possibile?

-Non preoccuparti, è possibilissimo-ribatté lei, dato che aveva sentito ciò che andavo farfugliando -durante uno dei miei soliti viaggi di lavoro, incontrai una ragazza che sui social si faceva conoscere come Nicole la Grande. Andammo subito d’accordo e iniziammo a parlare del perché di quell’appellativo – bevve un sorso di tè e vedendo che io ascoltavo attentamente continuò il racconto: -Mi spiegò che i suoi seguaci l’avevano soprannominata così perché nonostante le migliaia di insulti ricevuti non si era mai abbattuta, diversamente ha continuato con costanza a condividere con loro la sua vita e a strappargli qualche momento di gioia.

Quando vidi che stava finendo, incuriosita le chiesi il suo perché:-Questo nome me lo sono data da sola-continuò lei-per darmi forza in un momento molto duro della mia vita-fece un sospiro e riprese il discorso-sei anni fa, precisamente all’età di diciannove anni, mi fu diagnosticato un cancro oramai ad uno stadio avanzato, che mi avrebbe portato alla perdita della gamba destra. Avevo appena intrapreso il percorso di modella e sentendomi dare quella notizia, la mia vita andò in frantumi. Chinai la testa sotto il tavolo e intravidi dai risvoltini dei pantaloni la protesi: rialzai lo sguardo e teneramente la implorai di continuare: -Dopo essermi sottoposta all’operazione tutte le agenzie, vedendo il mio corpo, strapparono i contratti. Inizialmente ero davvero sconfortata, ma convincendomi che la mia vita non potesse finire lì, ho cercato altre agenzie.

Mi guardò commossa e concluse: -Ora sono a Roma per stare con la mia famiglia e tra qualche giorno ritornerò a Praga dove ho dato una svolta alla mia esistenza, diventando una delle modelle più conosciute della città.

Io le porsi i miei più sinceri complimenti e rimanemmo un attimo in silenzio. Poi la ragazza mi raccontò che anche all’influencer era successa al stessa cosa: -Anche a me è capitato di incontrare un’altra Nicole la Grande-disse quest’ultima alla ragazza del bar-ero appena entrata al supermercato e c’era una donna a cui stava cadendo, dalla busta bucata, la spesa. Vedendola in difficoltà, mi abbassai a l’aiutai. Mentre stavamo andando alla macchina le chiesi il suo nome-proseguì -e lei rispose: “Nicole la Grande”. Io, abbastanza turbata dal fatto che mi avesse rubato il nome, le chiesi una spiegazione. Con tranquillità mi rispose che era degna di portare questo appellativo perché con la sua determinazione e passione era riuscita a diventare una scrittrice di successo. Lei – disse l’influencer alla modella-scrisse molti libri e il genere letterario in cui era più ferrata era quello dei romanzi, pertanto fece molti incontri con noti scrittori.

Riflettei un momento, ma senza troppa esitazione la lasciai continuare. -Anche a lei- riprese, riferendomi ciò che le era stato raccontato dall’influencer – era successa la medesima cosa: durante uno dei suoi abituali eventi, tra il pubblico si era alzata una ragazza dai lunghi capelli neri- fece una pausa, mi scrutò e spalancò gli occhi, poi continuò sorridendo -che voleva farle una domanda e quando questa stava per parlare, la scrittrice le chiese il nome. -Mi chiamano Nicole la Grande!- le rispose la ragazza dalla folta chioma nera. – E come mai ti chiamano così?- aveva ribattuto la scrittrice.

-Dicono che sia altruista: metto sempre gli altri davanti a me, ma senza trascurarmi.

Una volta finito con il racconto, io un po’ rossa in volto la guardai e lei mi sorrise.

Emma Richiello

Il grande Dylan

Era il 2012 quando io, Dylan il Grande, stavo scappando da una torma di zombie che mi inseguivano. Sono Dylan il Grande, ho 34 anni, sono un ragazzo tarchiato, con i capelli castani, gli occhi verdi e sono magrissimo. Erano le 6:45 del mattino e mi trovavo a San Francisco, sul Golden Gate Bridge, nel corso di una ferocissima apocalisse, quando ben quindici zombie con gli occhi completamente bianchi e i vestiti strappati sbucarono dall’angolo oltre il ponte e iniziarono a seguirmi. Fortunatamente riuscii a seminarli grazie alla nebbia del mattino. Da lontano intravidi una casa con ancora la luce accesa e decisi di entrare. Al suo interno trovai altre otto persone vive per miracolo. Una volta dentro, loro mi fecero accomodare e mi chiesero il mio nome. Io glielo dissi. Il ragazzo più giovane chiese : “Scusa, ma come fai a chiamarti Dylan il Grande se sei così basso e minuto?”. Io gli risposi con un tono sfinito: “Lascia stare che questo nome mi ha portato solo guai”. Una ragazza più o meno della mia età mi implorò :”Dai, parlacene, non sappiamo cosa fare, almeno passiamo il tempo prima della fine.” Allora iniziai a raccontare: “Era una giornata bellissima. Mi trovavo ad un concerto, quando le guardie mi acciuffarono scambiandomi per un ladro. Mi chiesero il nome e glielo dissi, loro mi risposero che non potevo chiamarmi così perché il vero Dylan il Grande era il cantante che doveva esibirsi. Mi portarono nel suo camerino e quando gli raccontai cosa fosse successo quello si mise a ridere perché una volta, mentre stava cercando il suo manager, lo aveva trovato nel suo ufficio insieme al manager di un attore famoso. Quando si era presentato, questi gli aveva detto che era impossibile si chiamasse così, perché l’unico Dylan il Grande era l’attore per cui lavorava. Lo aveva portato da lui, al quale era successa la stessa identica cosa. Mentre era in giro in centro, aveva incontrato degli haters che, riconoscendolo, gli erano andati incontro iniziando ad insultarlo, dicendogli che il vero Dylan il Grande era un influencer bellissimo e famoso in tutto il mondo, al quale però era successo lo stesso fatto. Quando era stato in Cina per un viaggio, delle persone lo avevano riconosciuto e avevano deciso di portarlo dall’unico ed inimitabile Dylan il Grande. Lo condussero da un ragazzo di circa trent’anni il quale era rispettato da tutti per il grande coraggio dimostrato nel fare la cosa giusta. Un giorno dei carri armati erano stati incaricati di dare inizio ad una rappresaglia in piazza Tienanmen. Dylan il Grade, che era piccolo ed esile, si era messo davanti ai carri per non farli partire ed era riuscito nella sua impresa. Da quel giorno tutti lo avevano ammirato.”

Alla fine del racconto, il ragazzo più giovane mi chiese :”Ma non è che eri tu il ragazzo dei carri?”. Ed io risposi, sospirando :”Eh caro, il mondo è piccolo in fondo”.

Giada Renzoni